#BCM22 DIARIO DI BORDO - 19 NOVEMBRE

19/11/2022

Tradizioni rivoluzionarie

Questa mattina sono uscita dalla metro e mi ha accolta una città rallentata e pigra; sono venuta a salutare un’amica che lavora da Morellini editore che oggi, sabato 19 novembre, apre le porte di Labò, l’associazione culturale legata alla casa editrice che organizza corsi di scrittura, incontri e presentazioni. L’ambiente è confortevole e famigliare; la sala è già piena e la mia amica mi porge un caffè invitandomi a prendere posto, ma ho solo poco tempo prima del prossimo evento, non potrò fermarmi a tutti gli incontri della mattina e vorrei vedere il laboratorio e i libri scelti per presentare una delle loro collane. La mia amica mi accompagna così per il piccolo spazio mentre l’editore e gli ospiti conversano, scambiano opinioni e illustrano le iniziative future. Se ieri Milano si è svelata come stratificazione esterna di storie e visioni, ora mi mostra che anche al suo interno gli spazi esplodono e superano la costrizione della dimensione fisica. Mentre saluto la mia amica ed esco di corsa riscendendo le scale della metro, penso alla quantità di idee che quello spazio deve aver incubato, a come sono nate nel modo più tradizionale possibile: con la conversazione, lo scambio, il contatto, la rielaborazione di quello che c’era già.

Arrivo in zona Brera, al Laboratorio Formentini, per la presentazione di Laboratori critici, semestrale di poesia e percorsi letterari. Una delle voci che interviene è quella di Tommaso Di Dio, poeta e studioso milanese alle cui scritture sono molto affezionata; sono le sue parole a dare forma al pensiero affiorato appena un’ora prima e che si presenta come completamento e continuo della sensazione avuta ieri: Di Dio sottolinea che la poesia italiana contemporanea si riavvicina a un linguaggio comune lasciandosi alle spalle le sperimentazioni del secondo ‘900 per abbracciare la varietà del contemporaneo senza temere o uccidere ciò che la precede.

Esco dal laboratorio con la sensazione che quello spazio di creatività che guarda con curioso rispetto alla tradizione sia esteso a tutta quanta la città: questo evento è un laboratorio, BookCity riempie spazi della tradizione di voci nuove, nuove parole e immagini.

A Palazzo Reale il nuovo e l’inedito chiudono la mia mattina: a pochi metri dalle opere di Ernst e Bosch, Paola Dècina Lombardi e Andrea Cortellessa ripercorrono l’arco lungo del Surrealismo a cui Lombardi ha dedicato due volumi, riediti da Mondadori Electa in occasione delle due mostre da poco inaugurate. L’incontro è intenso e pieno di spunti ma quello che mi lascia è la sensazione che anche il cambiamento più radicale deve necessariamente voltare un po’ la testa a ciò che l’ha preceduto, ché rinnegare in toto la tradizione lascia sguarniti di slanci per rinnovarla.

Il pomeriggio è un ritorno a un posto sicuro: un incontro al teatro Franco Parenti con Alberto Casadei, Marco Balzano e Margherita Fenoglio sulla memoria del padre, Beppe Fenoglio, del quale quest’anno si è celebrato il centenario dalla nascita. Mi lascio cullare dai ricordi personali e letterari di uno scrittore che amo ma anche qui il dialogo tra tradizione e innovazione non mi abbandona: non solo ci troviamo nella stanza che fu il primo studio di Franco Parenti e Andrèe Ruth Shammah, ma anche le letture scelte da Margherita Fenoglio mi arrivano come una linea di continuità tra l’esperienza partigiana di suo padre e l’esigenza di trovare parole per descrivere la resistenza civile e politica che oggi si rende necessaria.

La luce calda del pomeriggio si sta già nascondendo dietro alle guglie del Duomo che sagomano un cielo rosa-azzurro; con l’amica che mi sta accompagnando in questo pomeriggio errante entro nel Centro Culturae di Milano, dove Carlo Greppi dialoga con Silvia Ballestra della vita e dell’opera di Joyce Lussu, alla quale la scrittrice ha dedicato una biografia pubblicata questo ottobre. L’affetto e la profondità con cui Ballestra ha dato forma alla vita della traduttrice, scrittrice e amica emerge a ogni parola e il piglio puntuale ma coinvolgente di Carlo Greppi coinvolge nella conversazione anche chi, come me, ha La sibilla. Vita di Joyce Lussu ancora chiuso sul comodino. Di tanti aspetti notevoli del lavoro di scrittura, di ricerca e della vita stessa di Lussu porto però a casa una considerazione: Carlo Greppi chiede provocatoriamente a Silvia Ballestra perché Joyce Lussu, la cui vita intellettuale e politica si sostanziava da sé, avesse scelto di portare il cognome del marito, Emilio Lussu. Ballestra cita la stessa Joyce (anche il suo cognome era quello di un uomo, almeno Lussu era il cognome dell’uomo che aveva scelto), ma aggiunge che questo le aveva permesso di ottenere vantaggi politici, come documenti per la liberazione di poeti e intellettuali incarcerati dei quali voleva amplificare o rendere udibile la voce attraverso la traduzione.

Mentre cammino verso la stazione questo aneddoto prende forma e suggella il pensiero che mi ha accompagnata dall’inizio di questo secondo giorno di BookCity: Joyce aveva in qualche modo usato la tradizione, prendendo il cognome del marito, per operare una profonda innovazione, per infrangere le barriere dell’oppressione. Non è forse questo che cercano di fare questa città e questa iniziativa? Creando in luoghi una volta elitari una cultura per tutti, alimentando fucine e laboratori con la fiamma di nuove idee? Non è forse questa la vera rivoluzione: rivedere e rimestare la tradizione?

                        Camilla Adelaide Sguazzotti

Cifre, lenti, parole

Da questa mia prima esperienza in BookCity (“prima” perché non avevo mai partecipato a questo evento, “prima” perché verrà secondata dalla giornata domenicale), ho estratto un insegnamento al quale la lunghezza di questa cronaca informale non renderebbe mai giustizia, id est: la pertinenza della storia come punto di partenza per riflettere criticamente sulla nostra condizione presente, per criticarla, trasformarla o mantenerla, a seconda dei bisogni.

La prima conferenza che mi ha indotto a considerare questo argomento è stata quella organizzata a Palazzo Reale sul libro (e l’omonima mostra) Hieronymus Bosch e l’altro Rinascimento. Questo incontro si è sviluppato in maniera ibrida, tra Teams e la sala conferenze del Palazzo, dove i cinque relatori hanno evocato l’Europa rinascimentale davanti a una platea numerosa. Enfatizzo il termine “Europa” poiché ha costituito la pietra miliare di tutto l’incontro: infatti, sia i curatori della mostra sia gli autori del libro (Bernard Aikema e Fernando Checa) hanno sottolineato a più riprese il fatto che, in opposizione alla tradizionale concezione regionale/nazionale della storia dell’arte, occorre elaborare un discorso piuttosto transfrontaliero per dare l’idea della fluidità dei rapporti accaduti nell’Età Moderna tra oggetti e soggetti. Di conseguenza, per un artista che è riuscito a sconvolgere il panorama artistico dell’epoca con la sua fantasticheria, è stata proposta a Palazzo Reale un’innovativa lettura metodologica che sfida la disciplina storico-artistica così come è nell’attualità. Questo approccio riuscirà a ispirare altre ricerche future?

Nel secondo evento a cui ho assistito – sempre a Palazzo reale, ma il cielo fuori già cominciava a tingersi di rosa – lo storico dell’arte Stefano Zuffi ha basato il suo discorso su un’altra sfida: quella offerta dal pittore rinascimentale Lorenzo Lotto allo sguardo contemporaneo. Benché questo artista non venga sicuramente acclamato nei percorsi abituali del turismo di masse, costituisce un vero maestro dell’inaspettato e dell’enigmatico. Ciononostante, Lotto non è un pittore di nicchia, bensì un ritrattista “dell’animo umano” (come viene definito da alcuni specialisti) che ha lasciato come eredità molte tracce del suo magnifico savoir faire, che adesso tocca a noi decifrare per ubicare l’artista dove merita, cioè, al centro di una rinnovata storia dell’arte attenta ai circuiti tradizionalmente trascurati. Un esempio per illustrare la sorprendente capacità artistica di Lotto: nella Pala di San Bartolomeo è raffigurata un’ombra inquietante, in quanto non corrisponde a nessuno dei personaggi che accerchiano la Madonna. Lo storico Stefano Zuffi ha interpretato questa scomoda presenza come un invito allo spettatore. Un invito su olio e tavola a lasciarci guidare dallo sguardo tranquillo e ponderato del maestro veneziano in questi tempi di nozioni scontate e accelerate.

La Fondazione Feltrinelli, quando la notte e la nebbia inondavano Milano ormai da ore, ha ospitato l’ultimo incontro che ho deciso di frequentare. Proprio lì si è parlato del libro M. Gli ultimi giorni dell’Europa. Ancora risuonano nelle mie orecchie alcune parole stimolanti e amare, di questa comunicazione.

Quando il passato non viene integramente digerito dagli eredi (a causa del dolore che ancora provocano alcune ferite oppure dalla vicinanza dei fatti stessi), nascono esperimenti come questo libro di Antonio Scurati sulle vicende di Mussolini. A mio avviso, l’autore ha dimostrato oggi in una sala piena di pubblico che il nostro atteggiamento nel mondo – e, per estensione, il nostro approccio verso il passato – deve essere continuamente discusso e rinegoziato. Raccontare il passato importa, ma è ancora più decisivo essere in grado di spiegare perché e come si racconta, poiché questa attività narratrice non è scontata. La dicotomia è la seguente: rimanere spettatori o diventare attori, nei confronti del presente e del passato, non solo perché la spensieratezza porta addosso pericoli ineffabili, ma anche perché, citando Goethe, “colui che non è in grado di darsi conto di tremila anni rimane al buio e vive alla giornata”. E questo è un pensiero davvero scoraggiante.

Tre personaggi, tre ere diverse, approcci incrociati, innumerevoli letture. Bisogna solo (anche se non sembra facile) adottare un atteggiamento critico – come dimostra l’angelo di Walter Benjamin (che assomiglia tanto quello di Lotto sulla Pala di San Bernardino) – per rendere conto della realtà molteplice della storia e per abitarla consapevolmente.

                                    Marina Bodoque 

Un viaggio tra secoli di storia dell’arte, mediato dalla letteratura

Milano racchiude, nella sua buffa pianta concentrica, decine di secoli di storia dell’arte, eppure a volte perfino gli appassionati come me tendono a dimenticarsene. Tra le vie di questa città apparentemente grigia e chiusa su se stessa è possibile scorgere, a ogni angolo, l’inconfondibile segno di una creatività che c’era e che tutt’oggi rimane viva nell’animo dei meneghini: il cornicione di un palazzo, l’antica scultura al centro di una piazza storica, un magico cortile rinascimentale che si scorge attraverso le fessure di un portone. Milano cela, gelosamente, migliaia di storie affascinanti e stupefacenti che attendono solo di essere raccontate.

Ed è proprio su questo tema a me molto caro, l’arte, che ho scelto di comporre il mio personale percorso all’interno di BookCity.

Una normale passeggiata, durante un uggioso pomeriggio di novembre, mi ha condotto attraverso un viaggio suggestivo alla riscoperta degli angoli nascosti dell’arte, quella stessa arte a cui più ci si avvicina e più appare vasta, più la si tenta di padroneggiare e più sfugge, effimera, tra le nostre dita.

Con un solo passo all’interno della Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco ci si sente catapultati in un mondo immensamente vasto, eppure così affascinante. Il mio percorso è partito esattamente da lì, tra i fumetti di Flavia Luigioli che ambivano a ricostruire la storia di alcune tra le più grandi pittrici della storia. I racconti su Artemisia Gentileschi, icona del Rinascimento italiano, hanno trascinato la mia mente verso un’Italia ancora politicamente divisa, ma che celava in sé tutto il potenziale per diventare la nuova capitale della cultura europea.

Soltanto spostandosi di qualche metro, varcando la soglia di Sala Bertarelli, ho potuto assaporare tutta l’irriverente e sovversiva aria di modernità che si respirava all’interno del Bauhaus. Nel suo testo La linea e l'ombra, che segue la pubblicazione di tre volumi appartenenti alla collana Outsiders, Alfredo Accattino è in grado di accompagnare il lettore in un percorso di innovativa scoperta tra le storie degli alunni del Bauhaus, irriverenti geni dell’arte creativa.

Infine, solo dopo qualche minuto in metropolitana, sono stata sbalzata dalla prima metà del ‘900 fino ai giorni nostri.Alla scoperta della Crypto Arte, evento basato sulla ricerca curatoriale e manageriale di Eleonora Brizi e Andrea Concas, è stata un’inattesa finestra verso un nuovo modo di fare arte che mi permetterei di definire non solo contemporaneo, ma essenzialmente futuristico. L’intervento di crypto artisti quali Mattia Cuttini e Giovanni Motta è riuscito a materializzare, nelle menti degli ascoltatori, il vero significato di questa forma d’arte che spesso viene considerata distante, criptica, perfino una non-arte.

Passo dopo passo, secolo dopo secolo, ha preso forma in me un’inaspettata certezza: la letteratura è la madre di tutte le arti. Non solo è immediato prodotto di una grande necessità umana, quella di comunicare, ma si presta con grande umiltà al servizio di ciascuna sfera della nostra conoscenza: libri di scienza, di tecnologia, di storia, di cucina, di arte… La letteratura si fa portavoce di un sapere a trecentosessanta gradi che progressivamente si arricchisce, generazione dopo generazione. È l’espressione tangibile di tutto ciò che è stato, che è e che dovrà essere. La storia dell’arte è stata tramandata ed ampliata solo grazie alla storia della letteratura. Un festival del libro come BookCity è quindi un’enorme raccolta di saperi, in senso plurale. Unisce gli amanti dell’arte, come me, agli appassionati di sport, di politica, di scienza, di economia. Leggere può permettere a ciascuno non solo di allargare le proprie conoscenze in mondi già noti, ma anche di avventurarsi in campi inesplorati del sapere umano.

                                    Beatrice Bianchi

Oggi, 19 novembre 2022, inizia la mia avventura a BookCity! Sarò sincera: mi sono trasferita a Milano da soli 3 mesi, prima abitavo in un piccolo paesino della Valle Brembana e di BCM avevo solo sentito parlare vagamente negli anni passati. Quando sono arrivata in città, però, sono stata travolta positivamente da questo evento e, in men che non si dica, mi sono ritrovata nel gruppo di volontari di BookCity 2022!

Nelle settimane precedenti l’inizio di questa grande manifestazione, sentivo nell’aria già un gran fermento… i grandi palazzi milanesi, le metropolitane, le pensiline, insomma, Milano si stava preparando!

Come primo evento, ho scelto di seguire la visita guidata al Conservatorio Giuseppe Verdi. Potrebbe sembrare una scelta un po' strana, ma sono in pochi a sapere che questa scuola di musica accoglie al suo interno una delle biblioteche musicali più grandi al mondo, accessibile a tutti dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18. Oltre a visitare quindi la biblioteca, ho potuto ammirare le aule, i corridoi, le sale da concerto, in particolare Sala Verdi e Sala Puccini, dove c’erano ragazzi che provavano per i concerti delle prossime settimane. L’atmosfera era magica, mi è sembrato di entrate in un mondo parallelo fatto solo di musica e arte, come se tutte le preoccupazioni e tristezze della vita fossero rimaste fuori dal portone di quest’edificio. Piccola chicca: lo sapete perché il conservatorio è intitolato a Giuseppe Verdi? Idem la sala da concerto principale? Perché Giuseppe Verdi, a suo tempo, non fu ammesso al conservatorio in quanto straniero, non milanese; anni dopo si decise allora di “rimediare” intitolando il conservatorio con il suo nome. Ora scappo ai prossimi eventi! Viva BookCity 2022!

                                    Sara Spera

La mia “passeggiata letteraria” inizia nel primo pomeriggio nella periferia sud di Milano. Percorro le strade affollate e mi perdo nel pensiero che tutte queste persone vadano alla ricerca di un evento di BookCity in giro per la città. Ah, come sarebbe bello! È un pomeriggio soleggiato e percepisco fervore ed energia per le strade: c’è aria di festa e cultura. Almeno così è in me. Sono molto emozionata all’idea di poter partecipare a letture, dialoghi e interviste e avere l’occasione di ascoltare storie, che, chissà, possano in qualche maniera cambiare la mia vita.

La prima tappa è il Teatro Piccolo Grassi, in occasione della presentazione del libro Tasmania di Paolo Giordano. I personaggi di questo romanzo, goffi e pieni di limiti, sono immersi in una realtà disastrata ma riescono nonostante tutto a mantenere armonia e lievità. In particolare, il libro narra gli anni precedenti alla pandemia, un periodo di storia iniziato con l’attentato al Bataclan a Parigi e caratterizzato da un sottofondo di terrore. È stata interessante soprattutto la discussione tra lo scrittore e la giornalista Daria Bignardi, concordi nell’affermare che a volte archiviamo le nostre esperienze più negative con una velocità preoccupante, a prova della nostra volontà di non voler vedere ciò che di più oscuro di circonda. In fondo, per sopravvivere, tutti cerchiamo la nostra Tasmania, un luogo in cui, semplicemente, sia possibile salvarsi.

Altro è lo spirito che caratterizza il secondo evento al quale mi dirigo. Al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci partecipo alla presentazione del libro Taxi Confidential di Giuseppe Coccon. Il luogo dell’evento si presenta più intimo rispetto a quello del primo incontro, proprio come lo sono le storie, intime e personali, raccolte nel libro. Sono storie in movimento, in luoghi del mondo diversi ma uguali al tempo stesso: nei taxi. In questi luoghi magici diventa naturale raccontarsi, stabilire microrapporti che possono durare nel futuro. È il tassita a raccogliere i vari pezzi di vita che i brevi percorsi lasciano all’interno della macchina. Mi soffermo a riflettere su quanto sia interessante la figura del tassista: colui che vive la propria esistenza cadenzata dai volti delle persone che entrano in macchina e che viaggia attraverso gli sguardi e le storie che passano in quei tre metri quadri dell’abitacolo.

Concludo la giornata al Mudec, il Museo delle Culture, dove l’associazione culturale Cubeart e collettivo poetico Poetry is my passion presentano la raccolta di poesie Sesamo e sale di cinque autori originari da cinque diverse parti del mondo: Costa d’Avorio, Cuba, Bosnia, Germania, Stati Uniti. L’evento, un viaggio tra musica, danza e poesia, mi fa riflettere sull’importanza della multiculturalità e della trasnazionalità nella nostra società. L’incontro tra diversi, la gioia di connessioni che si instaurano ed il vento di apertura scaturiscono in me energia e sperenza. E forse l’obiettivo di BookCity è anche questo: creare luoghi in cui siamo soli ma al tempo stesso connessi con il mondo intero.

                                    Sofia Campanelli

Bookcity: una molla per la mente

Il 19 novembre mi sono dedicata a BookCity: ho deciso di trascorrere un intero giorno in una città che amo e che ho scoperto tardi, con l’università.

La mia prima meta è l’Istituto Lombardo che, in via Brera 28, ha organizzato un incontro per presentare una novità di Salerno Editore: La letteratura dialettale milanese, a cura di diversi dei miei vecchi professori e di qualche amico che, in università, è rimasto. Appena arrivata, mi pare di riconoscere subito coloro che mi faranno compagnia nell’introvabile Sala delle adunanze, perché – esattamente come me – si aggirano per il cortile centrale di Brera, cercano e chiedono indicazioni.

La voglia di partecipare, sedersi e ascoltare qualcosa di nuovo è tanta. In sala si parla di un argomento che conosco poco, il dialetto milanese, e mentre sono seduta tra persone ben più esperte di me, mi viene spontaneo pensare a quanto BookCity possa esse un tramite di novità, un’occasione di scoperta. Forse era questa la molla che faceva scattare tutti da una porta del cortile all’altra, a chiedere indicazioni: la voglia di ampliare il proprio mondo attraverso la partecipazione a un palinsesto che, una volta tanto, è accessibile a tutti, gratuito, diffuso.

Dopo questo primo evento, un boccone veloce e la partenza per il Franco Parenti: alle 15.30, in uno dei miei luoghi del cuore, si parla di uno dei miei scrittori del cuore, Beppe Fenoglio. Varcata la soglia del teatro, riconosco l’ambiente: i tavolini con i programmi di BookCity all’ingresso, il tappeto rosso, le tende e, appena oltre, due volontarie. Mi sento quasi in dovere di fermarmi a parlare con loro, chiedere come sta andando la giornata e dove è la sala in cui mi devo recare. Cinque anni fa, ero io la volontaria in quella postazione: la maglietta aveva una grafica diversa e mi stava larga, ma se sono a BookCity anche quest’anno, ad aggirarmi per la città affamata di eventi, lo devo soprattutto a quell’esperienza passata.

La volontaria mi spiega da che parte devo andare e mi consiglia di affrettarmi: la sala dedicata all’evento è piccola e parte del pubblico è già arrivata, se non mi affretto, rischio di non trovare posto. Annuisco. Non c’è da stupirsi che la sala sia già quasi piena con i relatori previsti: Margherita Fenoglio, Marco Balzano e Alberto Casadei. Nell’ordine, la figlia dell’autore che si celebra, un popolare scrittore e un professore universitario, sui cui testi anche io ho studiato. In occasione del centenario della nascita di Beppe Fenoglio, la saletta è gremita. Diversi portano in sala delle sedie in più, ad altri va peggio e sono costretti a stare in piedi oppure dietro la porta, con le orecchie tese. Ma basta: perché il desiderio di tutti è quello di ascoltare Margherita, la figlia che perse il padre a due anni, ma che riesce comunque a trasmetterne l’essenza grazie ai racconti familiari di cui si fa portavoce. È un incontro intimo: si parla di mamme, di nonne, di Fenoglio come un membro di una qualsiasi famiglia. L’autore non mi sembra più quello che ho studiato a scuola, ma un ragazzo che, come tanti miei coetanei, cerca di affermare la sua posizione con la famiglia: la sua visione del mondo. Il mio coinvolgimento è tale che, quando si accenna al firmacopie, la mia taccagneria cede: compro I ventitré giorni della città di Alba e lo porto a Margherita perché mi resti, in libreria, il ricordo di questo incontro, che ha fatto venire le lacrime agli occhi a molti dei presenti per il trasporto dei passi fenogliani sapientemente letti da Marco Balzano e per i racconti di vita domestica.

Sono le cinque passate: per me è tempo di porre fine alla mia giornata da cittadina e tornare a casa. Mentre mi dirigo alla stazione, sento che Milano, con i suoi tanti stimoli, mi manca già. Una giornata così, nella mia provincia, non avrei mai potuto viverla. Le suole delle mie scarpe si sono scollate per il troppo camminare, ma la sensazione della mattina, a Brera, è rimasta. Mi sento ancora una molla carica, e lo devo a BookCity.

                                    Claudia Castoldi

Seguire gli eventi di BookCity Milano è stata un’esperienza che mi ha permesso di ascoltare persone con un’enciclopedia di saperi invidiabile, di analizzarne le opinioni e criticarle personalmente. Dibattiti su temi moderni e racconti su libri recentemente pubblicati sono stati all’ordine del giorno, mi hanno permesso di arricchire il mio bagaglio culturale ascoltando pareri ed eventi di cronaca, ma sono stata anche in grado di immedesimarmi nei protagonisti di alcuni romanzi che sono stati presentati, trovandoli estremamente interessanti e attuali. Sono stata a eventi che raccontavano di temi di cui sono una grande appassionata; ho seguito con interesse l’evento sulla Metamorfosi (un viaggio tra letteratura kafkiana e psicanalisi), in quanto è uno dei miei racconti preferiti, ed è stato estremamente stimolante ascoltare opinioni di esperti e studiosi su cosa una metamorfosi di genere possa significare e comportare.

Quello di oggi pomeriggio è stato un viaggio frenetico tra gli edifici culturalmente importanti di Milano, è stato estremamente stimolante correre da una parte all’altra della città in luoghi con una propria storia e un’importanza determinante in questa metropoli per seguire incontri altrettanto interessanti, un pomeriggio all’insegna della cultura, in cui si ha l’impressione di girare per le strade di Milano sentendosi scrittori “flâneur”, circondati da un’atmosfera artistica decisamente creativa e unica, che tutto il mondo invidia. Camminare per il centro, in Castello Sforzesco, nei vicoli di Brera, nel rude Corvetto, ha scaturito in me una sensazione di libertà molto simile alla Bohemièn francese.

Gli eventi a cui ho partecipato hanno riscontrato forte seguito e ammirazione: è stato interessante vedere come le persone si siano emozionate nel rispecchiarsi nei personaggi descritti e come gli autori siano legati ai personaggi da loro raccontati.

Quella di BookCity Milano è stata senz’ombra di dubbio un’esperienza che ha apportato in me un nuovo modo di vedere la città e di approcciarmi alle cose, e anche se il mio iPhone conta 15mila passi, li ripercorrerei uno a uno per rivivere questa giornata straordinaria, che mi ha regalato un turbine di emozioni e si è conclusa con nuove idee e nuove opinioni, qualche euro in meno e qualche libro in più.

                                    Giulia Leonardi

Noi, partecipanti di BookCity, noi, partecipanti della pittura di Lorenzo Lotto

Se penso a BookCity e al progetto alla base della sua fondazione, la prima parola che viene in mente è “partecipazione”. Subito dopo, “condivisione”. Non è una “fiera del libro” dagli intenti commerciali come altre, ma è molto di più. È un’occasione di coinvolgimento di tutta la città: BookCity chiama Milano, e la invita a prendere parte attiva alla sua festa.

Un esempio concreto di quanto ognuno di noi, in questi quattro giorni, si possa davvero sentire “partecipante” - e non semplice visitatore - l’ho osservato seduta in seconda fila, ascoltando le parole del professore Stefano Zuffi. Doveva essere un incontro sul pittore veneziano, bergamasco di adozione, Lorenzo Lotto, invece è risultato una lezione di storia dell’arte quantomai adatta al contesto BookCitiano. Per capire il motivo, o meglio, per partecipare a distanza all’esperienza (che finalmente è stata in presenza!), bisogna che racconti qualcosa di questo artista.

1480 (o giù di lì): anno di nascita di un inquieto e silenzioso personaggio, sempre messo in ombra da nomi troppo grandi che la sorte (cattiva) gli mise attorno. Si conoscono Raffaello e Tiziano; Giorgione e Michelangelo, ma quasi certamente nessuno ha mai sentito nominare Lotto (a meno che non sia andato alla mostra a Palazzo Marino il Natale scorso). Eppure, in quel finire di Quattrocento, c’era anche lui. E c’è un motivo ben preciso, se il prof. Zuffi ha recentemente deciso di scriverne un libro… Nel 2023, Bergamo e Brescia si uniranno in una “Santa Alleanza” (si fa per dire) che le renderà Capitali della Cultura. Ebbene, è capitato che una casa editrice bresciana, una certa Edea, abbia chiesto al suddetto autore di riempire qualche bella pagina sulla vita, morte, e miracoli (opere) di un artista del posto. Scartabellando qua e là, resosi conto di non aver materia da trattare al pari di Giotto o Raffaello (sue pubblicazioni precedenti), il Professore è inciampato su di lui, Lorenzo Lotto, d’ora in avanti, citando il titolo del libro, pittore “senza posa”. Senza posa nel senso di segnato da un’esistenza irrequieta, tanto interiormente, quanto fisicamente. Mai trovò il suo ubi consistam, sempre spinto a cambiare città, sempre messo in secondo piano davanti all’emergere del suo eterno irraggiungibile rivale, Tiziano. Senza posa, però, sono anche i suoi quadri, in cui i personaggi agiscono, si muovono di continuo, non risultando mai congelati come in certe statiche figure proto-rinascimentali.

La lezione prosegue scorrendo le date chiave della vita dell’artista (emblematiche del suo senza posa): nato a Venezia, esordito a Treviso, trasferitosi nelle Marche, a Recanati, e poi corso a Roma, tentando invano di entrare a far parte della cerchia delle “Stanze”, che furono presto affidate al piccolo genio di Raffaello, prima di una serie infinita di delusioni. Dove si rifugiò, a quel punto? A Bergamo: paese di “provincia”, nonché prossima Capitale della Cultura. A Bergamo, a quanto pare, si dovette trovare piuttosto a suo agio. Era piccola e lontana a sufficienza dai nomi più grandi da permettergli di dare il meglio di sé, esprimendo il suo vero talento. Perché, e lo vedete da voi visitando anche solo la Galleria dei Ritratti di Brera, qualcosa di speciale lo aveva. Semplicemente, era nato nel momento sbagliato, che lo aveva escluso dall’essere pienamente “partecipante” della scena artistica dell’epoca. Tra tutte le qualità che i suoi quadri possono avere, ce n’è una (ahimè allora non colta) che lo mette, ai nostri occhi, un gradino sopra i suoi contemporanei e un passettino indietro a Caravaggio. Non è la luce, non sono i colori, ma è qualcosa che si ricollega inaspettatamente al contesto di BookCity da cui siamo partiti: siamo noi. Noi, non più spettatori, ma “partecipanti”. Partecipanti degli eventi dipinti sulla tela. Se prendete il suo San Sebastiano, noterete che sulla sinistra c’è un’ombra apparentemente senza proprietario… è la nostra. Sono io, voi, loro, chiunque si accosti a osservarlo. Allo stesso modo, colpisce il volto girato di scatto di un angioletto scrivente della Pala di san Bernardino: sembra seccato, quasi fossimo stati troppo partecipi, facendogli perdere il filo.

Insomma, tra tutte le qualità del pittore che vi lascio il piacere di scoprire (c’è giusto un libretto fresco fresco che lo riguarda), la sua capacità di coinvolgere il pubblico rimane la migliore. Il che, se ci si pensa bene, è anche lo spirito chiave dell’evento cittadino che ha fatto da cornice a questa interessante lezione. A voi il giudizio su chi, tra Lotto e BookCity, riesca meglio nel medesimo intento.

                                        Emma Sedini